Il divin sake

Il divin sakeUn tempo offerta dei templi shintoisti, oggi alcuni suoi riti sopravvivono alla storia. E’ la bevanda che più rappresenta la tradizione giapponese. Anche in Italia. Non si può fuggire dal Giappone. E’ un modo di essere che accompagna la loro vita ovunque si trovino.

Un giorno  mio nonno era andato al tempio. Era immerso nella meditazione. A un certo punto ha alzato lo sguardo. In quel momento ha visto una colomba spiccare il volo e lasciare dietro di sé, verso il cielo, una scia dorata che ha illuminato il lago sul quale volava. E’ per questo che il sake della mia famiglia si chiama Colomba d’oro”. Miho mi accoglie stretta in un kimono dai colori tenui, i toni del lilla. E’ decorato da cinque mon, gli emblemi di famiglia, e questo nella tradizione giapponese vuol dire che è un kimono estremamente elegante, che si usa quasi solo nelle occasioni speciali: “Ma chi decide quali siano le occasioni importanti? Mia mamma, per esempio, si arrabbia se indosso un kimono decorato con dei fiori di ciliegio in autunno, ‘è fuori stagione!’, dice. Ma se un kimono è bello, è bello sempre”. Miho Masuda viene da Osaka, ma vive da più di vent’anni in Italia. E’ l’undicesima di una dinastia di produttori di sake. Il suo bisnonno si chiamava Kahei Masuda. Non è fuggita dal Giappone, perché la verità è che non si può fuggire dal Giappone. E’ un modo di essere che accompagna la vita di un giapponese ovunque egli si trovi. La sua tradizione la accompagna sempre, perché è la sua storia. E infatti Miho mi mostra subito con entusiasmo un drappo enorme, di seta, con al centro il mon della sua famiglia, lo stesso che porta disegnato sul kimono. Di primo acchito, mi sembra un abete stilizzato: “E’ una melanzana”, mi spiega. Rido per aver pensato all’abete, ma lei non si scompone. Dice che è uno dei teli che probabilmente i suoi antenati usavano per portare il sake al tempio shintoista. Poi tira fuori un cartello di latta. E’ un’insegna, e riporta in kanji (i caratteri di scrittura giapponese) la dicitura: qui si vende il sake di Masuda. E’ l’insegna di un’antica drogheria di Osaka, dove vendevano il sake della sua famiglia.

Il sake è la bevanda alcolica più tradizionale del Giappone. Non è un distillato, ma si realizza attraverso un processo di fermentazione e di pastorizzazione. Fondamentali sono due ingredienti: il riso e l’acqua. Attualmente esistono circa settecento tipi diversi di sake, praticamente un’infinita combinazione di elementi, e anche di tipi di produzione. Il gusto e l’aroma cambiano a seconda del tipo di riso, dell’acqua, e quindi – soprattutto – della provenienza territoriale. Un buon sake prodotto nella prefettura di Miyagi non è uguale a un sake di Kyoto. Anzi, è tutta un’altra cosa. Si dice oggi che il miglior sake in circolazione sia quello che viene prodotto con un particolare tipo di riso, lo Yamada Nishiki, coltivato originariamente nella prefettura di Hyogo. Ma il punto non è la produzione, quanto la storia. Si parla di sake già nel libro di Koiji, il più antico testo letterario nipponico, una “cronaca di eventi” compilata intorno al 712 d. C. Nel Koiji, dove la storia e la tradizione si fondono con il mito, si cita numerose volte il sake come bevanda degli dèi, ed è la divinità (kami) Sukunahikona a insegnare agli uomini come curarsi con le erbe mediche e come fermentare il riso per farlo diventare sake. Nei secoli il sake diventa bevanda esclusiva della casa imperiale (dove si produce direttamente) e dei templi shintoisti. E’ durante l’epoca della restaurazione Meiji  (la seconda metà del nostro Ottocento e la nostra Belle époque) che il governo decide di liberalizzare la produzione della bevanda alcolica: dal giorno alla notte nascono circa trentamila cantine, le migliori delle quali, negli anni, resistono alla concorrenza selvaggia. Anche oggi c’è una procedura particolare per le bottiglie destinate alla casa imperiale, il trono del crisantemo. Racconta Miho, con tono circospetto, che lei una volta è riuscita a vedere una di quelle famose bottiglie che sono destinate alle tavole dell’imperatore. Le cantine vengono contattate direttamente, e producono bottiglie senza etichette, che riportano solo la zona di provenienza. Per motivi di sicurezza, certo, ma anche per celare i gusti dell’imperatore, perché non si pensi che preferisce un sake all’altro.

Sono circa due anni che Miho sta inseguendo la storia dei suoi antenati, antichi produttori di sake di Osaka. Mi racconta che prima del 1945 c’erano più di ottanta produttori in quella zona, ma che con la guerra le cantine vennero rase al suolo. Miho un giorno ha scoperto che non è possibile importare il sake in Italia direttamente dal Giappone. Una complicazione non da poco, soprattutto considerando che la bevanda non è come il vino, e deperisce – ovvero perde di qualità – molto rapidamente, circa un anno dall’imbottigliamento. “Ho pensato: ecco qual è la mia missione, quello che vogliono i miei antenati da me. Far conoscere all’Italia, il paese dove vivo, la bevanda della mia famiglia”. E allora si mette a cercare. Finisce al museo di Osaka, per trovare notizie sulla cantina della sua famiglia. Ma lì nessuno sa niente, allora lei torna al museo, portando con sé tutte le cose che le aveva lasciato suo nonno. Il responsabile del museo rimane impressionato dall’inestimabile valore dei suoi cimeli. Le cantine, ma soprattutto i metodi di produzione, allora erano essenzialmente tramandati di padre in figlio. E quindi Miho mi mostra un libro di famiglia, dove sono annotati i metodi di produzione del suo sake, quello dei Matsuda, quello della Colomba d’oro. E’ scritto in giapponese antico, e alcuni passaggi sono di difficile comprensione anche per lei. I fogli scritti fittissimi sono intervallati da alcune figure, delle incisioni: uomini che trasportano botti (le botti tradizionali del sake, che contengono quasi cinque litri), uomini che trasportano il riso, donne in kimono che passeggiano. Rappresentano la cantina Matsuda, e la vita di Osaka.

Miho decide che è quella la sua missione. A pochi passi da casa sua, al Torrino, a sud di Roma, c’è una piccola e raffinata cantina. Si chiama Cantina Castrocielo. La gestiscono Carlo Dugo e Isabella Salvati. “Io conoscevo il sake come quell’orrida bevanda che ti servono alla fine dei pasti al ristorante cinese”, mi racconta Carlo, “con Miho ho scoperto un mondo”. Poi mi spiega di come, coinvolti dall’entusiasmo di Miho, decidono di provare a portare il sake in Italia: “Ci sono voluti tre giorni per farlo sdoganare a Fiumicino. Non esistono rapporti commerciali diretti con il Giappone, per importare cento bottiglie ci sono voluti sei mesi di lavoro”. E poi, una delle prime domande che uno si fa è: ma come venderlo agli italiani? Come un vino, nella patria del vino? Come una grappa? Isabella, che è sommelier, spiega che il sake non può essere paragonato a nessuna altra bevanda alcolica. E’ tutto un insieme di sapori e di storia, e ogni tipo di sake ha il suo tratto distintivo. E’ anche per questo che la distilleria Suntory Yamazaki, fondata nel 1923 da Shinjiro Torii, è stata riconosciuta lo scorso anno la migliore distilleria di whisky al mondo: “Il whisky giapponese – sembra strano dirlo – è il migliore”, ci dice Carlo, “dentro si sente tutto l’amore e la tradizione e la storia. E’ quella forza a renderlo diverso”. Carlo e Isabella hanno accettato una sfida, e sono felici di averlo fatto. Spiegano che è questo che vogliono per la loro Cantina Castrocielo, la ricerca della tradizione. Italiana, certo, ma anche di eccellenze che vengono dall’estero e che in pochi conoscono. Bere la storia, e bere la tradizione.

Miho, in un angolo della Cantina Castrocielo che ormai è diventato il suo angolo, ha preparato un piccolo altare di legno dove ha posizionato tutto il necessario per servire il sake. Non sono pochi oggetti, in effetti. Come in ogni tradizione giapponese, c’è un significato per ogni cosa. Mai nulla è lasciato al caso. Ci sono alcuni tipi di sake che vanno bevuti freddi, alcuni che vanno bevuti caldi e alcuni che si possono bere come ci pare. Miho mi mostra un catalogo spesso come un libro universitario, con un’infinità di quelli che noi chiameremmo set da sake. Sono i tokkuri, le piccole bottiglie dove si mette la bevanda quando viene servita. Ogni tokkuri ha la ciotola per eventualmente scaldare il sake, e poi i bicchieri, di legno, di ceramica, di vetro, alti bassi allungati a tazza. Sono quasi convinta che ci sia una regola da adottare, per ogni tipo di sake, ma Miho mi tranquillizza: “Forse. Ma poi alla fine ognuno sceglie quello che più gli piace”. L’importante è non mettere in tavola la bottiglia. Che poi di per sé non sarebbe nemmeno brutta, visto che anche per le bottiglie c’è una tradizione. Le etichette sono spesso disegnate e firmate da maestri di shodo, l’antica arte della calligrafia giapponese: “Ma oggi, con la crisi del sake, molti produttori preferiscono mettere dei pupazzetti al posto delle etichette tradizionali. Sai, attirano di più l’attenzione”. Già, la crisi. Oggi il sake, anche in Giappone e soprattutto tra i giovani, è considerato una bevanda da vecchi. Nel 2013 ha rappresentato soltanto il 6,5 per cento di tutto il mercato alcolico giapponese. I giovani preferiscono bere la birra o il vino. Ma ci sono  delle tradizioni che resistono lo stesso al tempo, alla rottamazione moderna. Per esempio durante i matrimoni: il rito del “san san kudo” (letteralmente significa “tre tre nove”) è una cerimonia complessa, che consiste nel bere tre sorsi per tre volte del sake da parte delle tre coppie che si uniscono in un’unica famiglia (i genitori di lui, i genitori di lei e i giovani sposi).  E’ l’equivalente del nostro scambio dell’anello. Nei primi tre giorni di gennaio, per salutare l’arrivo del nuovo anno, si brinda con il sake: “Anche se sei astemio, o saresti troppo piccolo per bere, in Giappone devi bere il sake per fare Akemashite Omedetou, buon anno!”, racconta Miho, “anche regalare una bottiglia di sake è un gesto importante, poi uno deve scegliere il momento giusto per aprirla”.

Il sake è una bevanda sacra, ed è un elemento essenziale delle cerimonie religiose ancora oggi. Dice il Koiji  che nasce per opera degli dèi, e con loro gli uomini devono condividerla. E infatti erano soprattuto i santuari shintoisti a produrre il sake, per usarlo durante il momento centrale della cerimonia di culto dei kami, ovvero il momento della condivisione, del banchetto con dio. Nella tradizione shintoista i sacerdoti condividono con gli dèi il riso e il sake in un’area in cui è vietato l’accesso ai laici, la parte più pura del tempio. Poi escono fuori, e banchettano anche con la comunità. Perfino gli origami, la nota tecnica di origini giapponesi che permette di realizzare figure e forme attraverso la piegatura di fogli di carta, nasce nel periodo Heian per coprire le bottiglie di sake offerte nei templi shintoisti.

L’altra bevanda della tradizione giapponese è il tè. Ugualmente preziosa, e utilizzata all’inizio dell’Ottavo secolo quasi esclusivamente dai monaci durante la meditazione. Nel corso dei secoli l’arte della preparazione del tè acquisì elementi rituali che la trasformarono in una Via verso l’Illuminazione. “La scelta del tè come strumento della Via non fu affatto casuale”, scrive Massimo Raveri nel suo “Il pensiero giapponese classico” (Einaudi): “I maestri avrebbero potuto benissimo scegliere il sake come bevanda centrale della cerimonia, ma non lo fecero. Per comprendere più a fondo le ragioni, è necessario vedere, nel gioco di trasparenze delle bevande tradizionali giapponesi, quello che è un discorso culturale più profondo: la sintassi del bere infatti non è solo basata su ragioni di carattere fisiologico o economico, ma è il risultato di una logica classificatoria che le usa come simboli per delineare concetti, codificare emozioni, instaurare o interrompere relazioni sociali, sancire ruoli di potere”.

E dunque, per capire il posto che il sake assume nel mondo tradizionale, bisogna prima spiegare quali siano le differenze con le altre bevande fondamentali: l’acqua e il tè. “L’acqua è una bevanda ‘naturale’, ‘cruda’, sempre servita fredda, che viene percepita in antitesi alle altre bevande ‘culturali’, cioè bollite, fermentate o distillate”, spiega ancora Raveri nel libro, “tutte le bevande hanno sfumature di colore che le caratterizzano e tonalità di gusto che le distinguono, elementi semantici su cui si può costruire un linguaggio; l’acqua no, l’acqua non ha colore, non ha sapore, è anonima, è semanticamente ‘muta’”. Quando muore qualcuno, in Giappone, è ancora in uso la tradizione di bagnare le labbra del morto con dell’acqua naturale. E’ per questo che l’acqua naturale, tra i vivi, è respingente: “E’ un gesto rituale che è stato per secoli associato all’angoscia della morte”. Offrire dell’acqua naturale, anche tra i contadini più poveri e che non potevano permettersi il tè, era anticamente un gesto offensivo. L’acqua si porgeva agli ospiti bollita oppure aromatizzata, ma mai nel suo essere più puro, quello legato alla morte. “Tè e sake sono invece bevande della vita”, scrive Raveri. “Significano la costruzione di rapporti sociali, e il loro consumo è obbligatorio per segnare un momento di amicizia, o per festeggiare un fidanzamento, uno sposalizio, una nascita, una guarigione”.  Il sake è quindi la vita stessa , inebriante e spontanea. Accorcia i tempi e rende più forti le emozioni. Se qualcuno vi offre del sake, sappiate che dovete rispondere: kampai!

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